Borgo Musolesi, gente venuta dal Mugello, appennino Tosco Emiliano tra Bologna e Firenze

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La via dei Musolesi

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La miriade di comunelle che costellavano il contado di Bologna scomparvero con la conquista d'Italia da parte di Napoleone. Ai primi dell'800 il territorio della montagna bolognese venne riorganizzato in strutture amministrative più vaste e funzionali. I minuscoli comuni rurali divennero frazioni di un più grande comune con sede municipale al capoluogo. Avvenne così che Piano, governato fino al 1797 da un particolare regime feudale con a capo i conti De Bianchi, divenne sede del comune appunto di Piano del Voglio, che corrispondeva all'incirca all'attuale territorio comunale di San Benedetto Val di Sambro. La caduta di Napoleone e la nuova sottomissione al governo pontificio non mutarono per questa parte le cose. Ma nel 1871, unita ormai l'Italia in Regno sotto i Savoia, la sede municipale fu trasferita da Piano a San Benedetto (con conseguenti drammatiche vicende che ho narrato altrove).
Le ragioni del trasferimento sono riassumibili nel fatto incontestabile che San Benedetto era più centrale e comodo rispetto a Piano per almeno otto delle dieci parrocchie del Comune. Lo stesso Ingegnere Capo della Provincia calcolò il tempo effettivo che un viandante (s'andava tutti a piedi) impiegava per raggiungere i due borghi partendo dal proprio: la media rispetto a Piano risultò di 112 minuti, mentre per San Benedetto era ridotta a 67. E del resto gli stessi 'comunisti' - come d'indicavano allora gli abitanti del Comune - s'erano più volte espressi a grande maggioranza nel Consiglio municipale per il trasferimento.
Da quel momento la véia ed Muslés cominciò a essere frequentata non soltanto dalla gente del borgo. La percorrevano, per raggiungere il Comune e i servizi collegati (posta, carabinieri, medico condotto, farmacia, banca...) i 'comunisti' di Sant'Andrea, Monteacuto, Ripoli e di tutti i borghetti e casali sparsi lungo la valle del Sambro e la sponda destra del Setta compresa nel territorio comunale: Osteria del Ruggieri, le Banzole, le Serrucce, La Tenzone,... citiamo nomi a caso, tatnto per contenere l'emozione che ancora ci prende nel ripensare a quei posti solinghi e alla gente che li abitava: montanari tenaci, cotti dal sole e dal vento, infaticabili nel lavoro e di poche misurate parole.
Quelli di Piano e Montefredente invece, una volta giunti al pilastrino della Pieve del Cucco, o scendevano a Musolesi, o prendevano la corta per la via dei Grilli (oggi svilita in via Erbosa). Tutte viottole e mulattiere conosciute per fatti straordinari che le rendevano paurosamente fascinose all'immaginazione dei viandanti.
Lungo la via di Musolesi, ad esempio, poco sotto e Camdìn, c'era un tronco con un santino a segnare l'inizio di un sentiero: lì ci si 'sentiva', e la sera dopo l'Ave Maria diventatava arduo per noi ragazzi passarvi accanto. Ancora più paurosa la via di Ca' di Viglia. Già dai bòssel, la siepe di bosso alta e fitta, dopo il tramonto faceva trepidare. Ma giunti a l'ébi, l'abbeveratoio si Sant'Antonio Abate, e cominciato a scendere la viottola, si era in balia degli spiriti: che ti chiamavano a nome e sbeffeggiavano battendo le mani e ridendoti addosso, E dal cielo abbuiato pizzicavano tristissimi violini. Fra le ultime ad udirli, per quel che so, sono state mia madre Alide e Bruna, che ancora ragazzette tornavano una sera da Ca' di Viglia dove erano state a prendere uova e latte per la casa.
Ma addirittura terrifica era la mulattiera che, oltre Mulino di Giovannino, proseguiva per Montefredente, Lì, se non toravi il sasso sulla maséra, correvi addirittura il rischio d'essere inseguito da e murtizìn, dal morticino, un disgraziato che chino sulla polla a bere, era stato ammazzato anni e anni addietro da uno che gli era andato alla via, come si diceva, per gelosia di donne. Ma anche la passerella sul Sambro per Sant'Andrea era diventata luogo pauroso da quando nella primavera del 1944, poco prima del passaggio del fronte, vi avevano ucciso a fucilate due carabinieri. Tutti in paese, inorriditi, li avevano visti trasportare nell'allora Casa del Fascio allungati su due scale a pioli, coperti alla meglio con delle frasche. Da quel giorno la passerella divenne passaggio angoscioso e noi si preferiva guadare scalzi l'acqua del torrente guardando intanto l'infido buio di sotto, da cui era sbucato l'assassino.
Durante la guerra il campone del Castelluccio era diventato addirittura un campo d'aviazione, fino a che una 'cicogna' - così chiamavano un leggero monoplano da ricognizione - non catapultò atterrandovi e ponendo ingloriosamente fina all'attività aeronautica degli Alleati nella piana di Castelluccio.
Perchè noi in Sambro ci si andava d'estate quasi tutti i pomeriggi. Appena mangiato, pantaloni corti e canottiera, si volava scalzi giù a Musolesi dove ci aspettavano gli amici. E con loro ancora giù alla briglia del Castelluccio o in pozzi costruiti da noi con sassi e fango, alla Barléda o alla passerella. A tuffarsi - l'acqua era tiepida e limpida, e si vedevano i pesci fuggire negli anfratti e le sanguisughe appiccicate ai sassi striati di melma, in attesa - a spruzaiér e nuotare alla cagnina, lo stile animalesco consentito dal limitato specchio d'acqua a disposizione.
E poi scorpacciate di ciliege, di rusticani, di pere e mele acerbe, di more...Le libellule zigzagavano azzurre fra i salici delle rive e a sera le rondini sarebbero sfrecciate a pelo d'acqua a bagnarsi le piume del petto.
Poi il ritorno lungo l'erta, con alle spalle il sole che s'avvicinava al tramonto fra Monte Armato e la Piana dei Monti. Ma al 'voltone' tirava sempre una corrente d'aria fresca e lì, sudati per la salita, ci appoggiavamo al muro a prendere fiato. Dalla porta accanto compariva a volte Ida ed Rubérto: "A vlìv un mèscuel d'acqua? / Volete un mestolo d'acqua?" Tornava col secchio e il mestolo in rame: a turno lo portavamo alla bocca e l'acqua ci rigava la gola e il petto. Poi ancora su, in paese: i rondoni impazziti vorticavano in cerchi larghi attorno al campanile e le strida riempivano il cielo. Fra poco Avréglio. attaccato alla corda della mezzanella, avrebbe suonato l'Ave Maria e ci saremmo accovacciati sulle scale di casa, ancora calde del sole, ad ascoltare le chiacchiere delle donne e i meravigliosi fatti dei vecchi.
E vecchioni oracolari, setolosi e candidi di tempo, ce n'era più d'uno a Musolesi. Seduti sulle scale di casa e sul muretto di lato alla strada o allungati sulle lastre dell'aia, apostrofavano i passanti con sapida ironia. Passava lento un coetaneo che veniva di via.
E uno di loro: "Alòra a sì ancòra viv? I m'avéven dét c'a siri bèle andà...(Allora siete ancora vivo? Mi avevano detto che eravate già andato...)
E l'altro: "S'a campé vò, a chèmp énca mé. (Se campate voi, campo anch'io).
Perchè i montanari avevano lingue affilate al motteggio e la parola 'spicca', cioè pronta, vanto riconosciuto nella cultura orale del mondo contadino. Per questo alcuni personaggi di Musolesi sono rimasti nella memoria della comunità fino a ieri, cioè fino alla generazione nata innanzi l'ultima guerra: Piròt, patriarca pacioso; Télli, fantasioso folaio che, emigrante in Brasile e poi in libia, ne aveva riportato fatti strabilianti; Rumanàz, affabulatore filosofo, che anche sul letto di morte ebbe la parola giusta; Funsìn di Lenzi, le cui 'scarnie' divertivano per giorni lui e il borgo (un po' meno chi ne era coinvolto). E poi, più giovani, Vitòri ed Nando, Augòsto e Iusfìn ed Télli, Gustìn, Gualtiero...Un'eco dei loro detti e fatti può avvertirsi in due romanzi, Ugone eroe e Ai cancelli del vento, che ho inteso scrivere proprio perchè quel mondo non scomparisse con la mia generazione (mi si conceda la citazione personale, obbligata).
Ma con quelli di Musolesi capitava anche che si facessero le sassate. Quando ancora la montagna era popolosa di contadini e di bestiame, e anche le prode dei fossi e delle cavedagne venivano vangate e seminate per ricavarne qualcosa. Perchè a Musolesi c'era tanta gente, fra proprietari che lavoravano in proprio la terra (magari servendosi di braccianti al bisogno), proprietari che se la facevano lavorare a mezzadria e contadini mezzadri (i Manara, i Venturi, i Lumini, i Rinaldi...). E dunque tanti ragazzi, appena adolescenti o già con la prima barba. Orgogliosi d'essere di Musolesi e di contrapporsi a quelli di San Benedetto. Così che una domenica pomeriggio, fra noi e loro - non ricordo come e perchè, ero poco più che bimbetto - si comincio a fér al saséd, che era modo antichissimo d'affrontarsi a distanza. Loro venivano su da Musolesi e raccoglievano i sassi direttamente dalla via, che allora era solo inghiaiata. Nonostante dovessero salire - erano in molti e organizzati - ci respinsero su oltre la Cooperativa e fin quasi a Ca' dei Merciai. La sassaiola era fitta e paurosa. Noi rinculavamo, possimi a una disfatta vergognosa, quando arrivarono rinforzi da San Benedetto alto e riuscimmo a ricacciarli in discesa e a disperderli. Cose oggi inimmaginabili. Eppure ci si voleva bene, ma quando c'era di mezzo l'identità borgatara s'accendevano le rabbie più cieche. (Nell'immediato dopo guerra i ragazzi di Musolesi avevano messo insieme addirittura una squadretta di calcio - il capitano era Cècco - e ci scontravamo con eguale ardore senza spargimento di sangue).
A conclusione di questo ricordo di Musolesi, voglio scrivere qualcosa sul pilastrino della Pieve del Cucco e sul suo strano toponimo. Fu restaurato qualche anno fa da Cècco ed Muslès e da Brunone, che ricoprirono il tetto con due nuove lastre di arenaria e ripararono crepe e fessure: ma la fattura massiccia e di sasso eroso dal tempo lo indica con sicurezza il più antico delle vallate intorno.
E anche il nome, che deve a un sito appena sopra: la Pieve del Cucco. Pieve indicava nel Medio Evo una chiesa importante, con fonte battesimale, che poche avevano nel XVII secolo. Dubitiamo pertanto che un luogo possa avere tale nome senza congrui motivi (anche a Montorio esiste un podere nominato la Pieve, a testimoniare che vi sorgeva fino al 1600 la prima chiesa, poi distrutta da una piena del Sambro). Pieve del Cucco significa dunque chiesa del cucuzzolo, perchè 'cucco' nel nostro caso - lo affermano gli studiosi di toponomastica - vale appunto montagnola, greppo.
La prima antica chiesa di San Benedetto che in un documento del 1378 è detta di Qualto, sorse forse lì, sulla sponda del Sambro, in faccia ai castagneti di Qualto - al cui Comune apparteneva - fra campi volti a sud e per questo disboscati, magari dai benedettini. E una tenace tradizione orale, evidentemente vecchia di secoli, lo afferma.

Adriano Simoncini


 
 
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